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Sei cinico o costruttore?

Oggi mi sono imbattuta in questo breve scritto di Seth Godin, lo riporto integralmente e lo accompagno con la mia, spero sufficientemente precisa, traduzione.

How will we use our gifts? What difficult choices will we make–when it might be easier to hide?

Will we waste our advantages and insulation?

Will inertia be our guide, or will we follow our passions?

Will we follow dogma, or will we leap forward and be original, generous and helpful?

Will we choose a life of ease, or a life of service and adventure?

Will we wilt under criticism, or will we follow our convictions?

Will we bluff it out when we’re wrong, or will we apologize?

Will we be clever at the expense of others, or will we choose to be kind?

A cynic, or a builder?

And we get to decide again every single day.

Come useremo i nostri doni? Quali decisioni difficili prenderemo, quando potrebbe essere più facile nascondersi?

Sprecheremo i nostri vantaggi e il nostro isolamento?

Sarà l’inerzia a guidarci o seguiremo le nostre passioni?

Seguiremo il dogma o faremo un balzo in avanti e saremo originali, generosi e pronti ad aiutare?

Sceglieremo una vita agiata tranquilla o una vita di servizio e avventura?

Appassiremo sotto le critiche o seguiremo le nostre convinzioni?

Quando sbaglieremo faremo finta che non sia così o chiederemo scusa?

Saremo furbi a spese degli altri o sceglieremo di essere gentili?

Saremo un cinico o un costruttore?

E prepariamoci a deciderlo ancora giorno dopo giorno.

In questi ultimi due giorni, scorrendo titoli di notizie, parole individuate qua e là tra i post in vari social ho vissuto parecchi momenti di sconforto: i contenuti e i toni mi hanno spinto, mio malgrado, verso la trappola in cui so di poter cadere, quella del cinismo. Mi sono trovata davanti a ‘cose presentate come fatti in un modo tale che’ la mia fiducia nell’essere umano ha vacillato. Non è la prima volta che mi succede e per questo sono diventata veloce ad accorgermene e a riportare la mia attenzione sul particolare e sulla quantità di persone che tra i miei contatti diretti e non solo alimentano invece la mia fiducia. L’ho fatto non per fuggire alla sgradevole sensazione di essere parte di una specie a volte incomprensibile, ma per ricordare a me stessa che generalizzare può essere utile ma a volte è la cosa peggiore, soprattutto quando con le persone abbiamo concretamente a che fare.

Il cinismo è un tema che è tornato alla mia attenzione grazie una breve intervista di Danilo Casertano a Francesca Cavallo. Francesca ha raccontato un episodio della protesta dei gilet arancioni svoltasi il giorno precedente vicino a casa sua e le domande che le parole raccolte a bordo piazza avevano fatto sorgere in lei, domande che cercavano di comprendere le ragioni di quanto aveva sentito dire dai partecipanti alla protesta, nonostante (anzi, proprio in risposta a) il suo disaccordo: ‘che cosa può portare una persona a dire questo? Quali sono le sensazioni, le convinzioni che possono portare una persona a sentirsi in questo modo, a credere a queste cose?‘ Mi sembra che l’atteggiamento di Francesca possa essere considerato modello del costruttore, di chi di fronte all’alternativa del cinismo sceglie di dire: ‘non sono d’accordo con quello che dici, ma voglio capire qual è la storia che ti porta a questo‘.

Forse essere curiosi delle storie degli altri potrebbe insegnarci quello che ci serve sapere per stare, agire, creare insieme.

Sospendi il giudizio: può far bene anche al tuo lavoro

Qualcuno ricorda il detto: “Gli esami non finiscono mai”? In effetti, almeno in parte, è così. Anche quando sembra finita la trafila di test formalizzati da sostenere, difficilmente dalla nostra vita, come per magia, scompare il giudizio: non scompare quello degli altri nei nostri confronti (come ci comportiamo, le scelte che facciamo, il modo in cui lavoriamo, i risultati che otteniamo), né il nostro nei confronti degli altri, né quello che esercitiamo nei confronti di noi stessi. Esercitare la facoltà di giudizio, distinguere, è cosa sana, è un modo di prendere contatto con la realtà e interpretarla, un modo di riconoscere a che punto siamo rispetto ad un sistema di riferimento che accettiamo per buono, ma occorre esercitare questa facoltà in modo adeguato perché possa guidarci verso un miglioramento. Provo a suggerire una strada possibile partendo dall’ambito educativo.

In questi ultimi anni ho sentito il bisogno, anche per motivi di lavoro, di accostarmi a diversi tipi di pensiero pedagogico. Volevo affinare la mia capacità di entrare in relazione con i bambini, a partire da quello scricciolo sprizzante gioia che mi sono trovata in casa quasi nove anni fa. Non ho mai provato una naturale inclinazione verso i più piccoli, ma a un certo punto ho cominciato a incuriosirmi. Così mi sono trovata immersa in un mondo in cui all’adulto si chiede veramente moltissimo, tanto per cominciare una capacità di attenzione, osservazione, ascolto che qualche volta pare sconfinare nel superumano (i bambini non parlano la stessa lingua degli adulti e non comprendono la lingua nello stesso modo degli adulti), e uno spirito accogliente che fa del ‘sospendere il giudizio’ quasi un mantra. Ma perché si chiede agli educatori la capacità di ‘sospendere il giudizio’? I motivi sono in realtà molti, ma in questo momento mi interessa concentrarmi su uno in particolare. Forse avrete già sentito parlare degli effetti collaterali delle etichette, di come quelle parole che utilizziamo, spesso in modo automatico, per definire qualcuno o qualcosa non si limitino al compito apparentemente innocuo di assegnargli un posto nella nostra esperienza. Più spesso di quanto si possa pensare queste etichette creano una cornice. E la cornice fa quello per cui è nata: incornicia. Avete mai provato a cambiare la cornice a un quadro o a una fotografia? Succedono cose interessanti. Alcune cornici svolgono semplicemente il loro compito, altre sembrano messe lì a forza, altre invece illuminano l’immagine, aggiungono valore. Accade qualcosa di simile anche quando ad essere incorniciata è una persona, un’idea, un modo di fare le cose, un comportamento. Magari è capitato anche a voi di portarvi dietro per anni una convinzione su voi stessi, conseguenza di un’etichetta che un adulto di riferimento poco attento vi ha messo in fronte quando eravate più piccoli.

A chi ha una responsabilità educativa si chiede di mantenere uno sguardo ‘non giudicante’ per mantenere aperto uno spazio di possibilità che il giudizio chiuderebbe. Non significa accettare tutto come adeguato. Significa riconoscere la necessità di accogliere prima di tutto la presenza di un dato, senza aver fretta di dare spiegazioni, senza aver fretta di capire, senza aver fretta di giungere a delle conclusioni. Significa permettere che qualcosa di diverso dalle proprie attese e convinzioni, diverso dalle proprie conoscenze oppure qualcosa di inaspettato possa farsi vedere, farsi riconoscere.

La mia esperienza mi dice che non è una capacità così diffusa. La velocità a cui ci è chiesto di agire porta spesso a muoversi ancora più velocemente, a reagire, a ripetere i comportamenti che crediamo corretti, funzionali. Fare spazio richiede tempo. Ma questo tempo impiegato nel fare spazio dischiude una ricchezza di sfumature, dettagli, informazioni che altrimenti andrebbero perdute e che invece possono essere una risorsa importante per creare, anche per creare valore.

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Conversazioni come terra: sabbia, roccia o terriccio fertile?

Da tempo e da molte voci si leva l’allarme o, almeno, una forte preoccupazione rispetto allo stato di degrado, quando non di devastazione in cui si trova il nostro pianeta. Preoccupazioni che meritano di essere prese in giusta considerazione, perché non possiamo sottostimare il legame che sussiste tra la prosperità di un organismo vivente e lo stato dell’ambiente che lo ospita. Ne conseguono consigli e raccomandazioni perché ciascuno di noi adotti uno stile di vita più rispettoso dell’ambiente stesso, dalle scelte alimentari ai comportamenti nell’abitare e alle preferenze d’acquisto.

Credo che questa sana attenzione dovrebbe essere estesa anche ad un altro ambito della nostra quotidianità che è così abituale da rischiare spesso di essere trascurato, e sul quale possiamo avere un controllo ben più elevato che sulle condizioni del pianeta.

Questo ambito sono le nostre conversazioni. Tutti conversiamo, in misura maggiore o minore e in modalità diverse. Alcuni di noi hanno interazioni frequentissime con altre persone, altri ne hanno di meno. C’è chi passa ore a parlare in presenza o al telefono, c’è chi interagisce quasi esclusivamente in modo asincrono e tramite la parola scritta. Tutti, credo, consideriamo queste interazioni come naturali, come parte del nostro essere umano. Tutti siamo influenzati dalle conversazioni in cui siamo coinvolti, quasi tutti abbiamo teniamo in scarsa considerazione l’impatto e l’influenza che il nostro modo di conversare ha sulle altre persone, e non solo sui nostri interlocutori diretti. Penso che poche persone abbiano mai considerato queste interazioni come ‘terreno’, come un ‘ambiente’ che consegnano agli altri e, di conseguenza, abbiano considerato le implicazioni di questa metafora.

Se noi, come umani, siamo in grado di adattarci ad ambienti diversi, come testimonia l’ampia diffusione della nostra specie sulla Terra, non è lo stesso per altri esseri viventi, che presentano un alto livello di specializzazione e la cui sopravvivenza è fortemente condizionata dal mantenimento di determinate condizioni ambientali. Prendiamo come esempio le piante: ciascuna di esse predilige un certo tipo di terreno e di condizioni climatiche. Lo sa bene chi progetta giardini: la scelta di ciò che può essere messo a dimora dipende dalle caratteristiche del luogo.

Che cosa potrebbe accadere se cominciassimo a considerare le nostre conversazioni con gli altri come un terreno che possiamo predisporre perché dia frutto a suo tempo? Continueremmo a considerarle come qualcosa che non necessita cura perché neutro o adatto a tutti? Oppure potremmo pensare di agire sulle sue caratteristiche per renderlo più idoneo a generare i risultati che desideriamo?

(Photo by Markus Spiske on Unsplash)