Qualcuno ricorda il detto: “Gli esami non finiscono mai”? In effetti, almeno in parte, è così. Anche quando sembra finita la trafila di test formalizzati da sostenere, difficilmente dalla nostra vita, come per magia, scompare il giudizio: non scompare quello degli altri nei nostri confronti (come ci comportiamo, le scelte che facciamo, il modo in cui lavoriamo, i risultati che otteniamo), né il nostro nei confronti degli altri, né quello che esercitiamo nei confronti di noi stessi. Esercitare la facoltà di giudizio, distinguere, è cosa sana, è un modo di prendere contatto con la realtà e interpretarla, un modo di riconoscere a che punto siamo rispetto ad un sistema di riferimento che accettiamo per buono, ma occorre esercitare questa facoltà in modo adeguato perché possa guidarci verso un miglioramento. Provo a suggerire una strada possibile partendo dall’ambito educativo.
In questi ultimi anni ho sentito il bisogno, anche per motivi di lavoro, di accostarmi a diversi tipi di pensiero pedagogico. Volevo affinare la mia capacità di entrare in relazione con i bambini, a partire da quello scricciolo sprizzante gioia che mi sono trovata in casa quasi nove anni fa. Non ho mai provato una naturale inclinazione verso i più piccoli, ma a un certo punto ho cominciato a incuriosirmi. Così mi sono trovata immersa in un mondo in cui all’adulto si chiede veramente moltissimo, tanto per cominciare una capacità di attenzione, osservazione, ascolto che qualche volta pare sconfinare nel superumano (i bambini non parlano la stessa lingua degli adulti e non comprendono la lingua nello stesso modo degli adulti), e uno spirito accogliente che fa del ‘sospendere il giudizio’ quasi un mantra. Ma perché si chiede agli educatori la capacità di ‘sospendere il giudizio’? I motivi sono in realtà molti, ma in questo momento mi interessa concentrarmi su uno in particolare. Forse avrete già sentito parlare degli effetti collaterali delle etichette, di come quelle parole che utilizziamo, spesso in modo automatico, per definire qualcuno o qualcosa non si limitino al compito apparentemente innocuo di assegnargli un posto nella nostra esperienza. Più spesso di quanto si possa pensare queste etichette creano una cornice. E la cornice fa quello per cui è nata: incornicia. Avete mai provato a cambiare la cornice a un quadro o a una fotografia? Succedono cose interessanti. Alcune cornici svolgono semplicemente il loro compito, altre sembrano messe lì a forza, altre invece illuminano l’immagine, aggiungono valore. Accade qualcosa di simile anche quando ad essere incorniciata è una persona, un’idea, un modo di fare le cose, un comportamento. Magari è capitato anche a voi di portarvi dietro per anni una convinzione su voi stessi, conseguenza di un’etichetta che un adulto di riferimento poco attento vi ha messo in fronte quando eravate più piccoli.
A chi ha una responsabilità educativa si chiede di mantenere uno sguardo ‘non giudicante’ per mantenere aperto uno spazio di possibilità che il giudizio chiuderebbe. Non significa accettare tutto come adeguato. Significa riconoscere la necessità di accogliere prima di tutto la presenza di un dato, senza aver fretta di dare spiegazioni, senza aver fretta di capire, senza aver fretta di giungere a delle conclusioni. Significa permettere che qualcosa di diverso dalle proprie attese e convinzioni, diverso dalle proprie conoscenze oppure qualcosa di inaspettato possa farsi vedere, farsi riconoscere.
La mia esperienza mi dice che non è una capacità così diffusa. La velocità a cui ci è chiesto di agire porta spesso a muoversi ancora più velocemente, a reagire, a ripetere i comportamenti che crediamo corretti, funzionali. Fare spazio richiede tempo. Ma questo tempo impiegato nel fare spazio dischiude una ricchezza di sfumature, dettagli, informazioni che altrimenti andrebbero perdute e che invece possono essere una risorsa importante per creare, anche per creare valore.
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